sabato 24 dicembre 2016

Si, il popolo ha bisogno di eroi

In queste ore durissime, nell'imminenza di feste natalizie piu` che mai a rischio per il fanatismo e la crudelta` dei terroristi islamici, sono state sollevate molte polemiche sulla decisione di divulgare i nomi e le fotografie di Luca Scatà e Christian Movio, i due agenti che hanno affrontato e ucciso a Sesto San Giovanni Anis Amri, il macellaio di Berlino. Averli tanto esaltati come eroi, si e` detto, li ha esposti sconsideratamente alle rappresaglie jihadiste.

Anche ammettendo che si sia trattato di un errore dovuto a imprevidenza o dilettantismo, sono polemiche sterili perche` ormai il danno e` fatto. E in ogni caso c'e` poco da dubitare che i terroristi sarebbero prima o poi venuti a sapere la loro identita` anche se non fosse stata rivelata. Non dimentichiamo come venne profanata la tomba di Francisco Javier Torrontera, un agente delle forze speciali spagnole caduto nell'assedio agli attentatori di Madrid nell'aprile del 2004 (vedi  questo link).

Quello che preoccupa forse piu` delle rappresaglie islamiche e` questa atmosfera di pavidita` e di rassegnazione, quasi che avessimo a scusarci di avere eliminato un assassino per paura di attirarci addosso una vendetta che verra` comunque e che nessuna sottomissione varra` a evitare. Tanta vilta` morale finisce per sminuire il valore del gesto di chi ha affrontato e vinto il terrorista a rischio della propria vita.

Pur con tutti i rischi del caso, in un certo senso e` stato bene aver diffuso i volti e i nomi dei due agenti. E` stato un segnale inequivocabile di avvertimento ai terroristi: in Italia ci sono persone disposte ad affrontare la minaccia, che sono pronte a "metterci la faccia", uomini di fronte alle quali nessun jihadista puo` illudersi di cavarsela a buon mercato. Contrariamente a quel che pensava il borghesissimo Bertholt Brecht, un popolo ha bisogno di eroi, e ne ha bisogno piu` che mai ora, quando lo scopo preciso dei terroristi e` quello di renderci muti, spaventati, disposti a nascondere la nostra identita` e le nostre convinzioni, gia` schiavi nello spirito in attesa di essere incatenati anche nel corpo. Come ha scritto quasi profeticamente l'agente Scatà, "la paura e` una reazione, il coraggio e` una scelta". Reagire e` il primo passo per liberarci dalla soggezione e dalla sottomissione.

Per questo il mio ringraziamento personale, e quello di milioni di italiani non ancora rimbambiti dal buonismo, va a Luca Scatà e Christian Movio con i migliori auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo!

Giovanni Romano

martedì 20 dicembre 2016

La psicopolizia del Web

Riporto qui la lettera che scrissi ad Avvenire il 21 Novembre scorso in merito alle polemiche suscitate dalla vittoria di Donald Trump e alle insinuazioni (condivise anche da Avvenire, sembra di capire) che fosse stata propiziata dalla diffusione di notizie false propalate ad arte per screditare la Clinton. Ora, a parte tutta la pesantissima campagna di denigrazione contro Trump e il suo elettorato sulla quale il quotidiano della CEI non ha speso nemmeno una parola, il rimedio prospettato dall'articolista mi sembra peggiore del male. Ecco il mio testo:

Spett.le Redazione,
ho letto con interesse il pezzo di Gilio Rancilio datato sabato 19 novembre, e devo dire di avere alcune riserve tanto sul merito quanto sul metodo. I contenuti sono ovviamente inoppugnabili, ma il tono generale dell’articolo sembra insinuare che Trump sia stato eletto in buona misura grazie alla diffusione di menzogne propalate ad arte contro la Clinton. Peccato che anche l’ex presidente Obama abbia fatto un uso intensivo dei social networks in occasione di entrambe le sue campagne elettorali senza che nessuno abbia trovato nulla da eccepire.

Ancora meno condivisibile, secondo me, è l’aver accennato senza apparenti obiezioni ai “poliziotti del web”. Ma chi controlla i controllori? Chi garantisce che questo controllo non diventi una psicopolizia per imporre il pensiero unico “politically correct”? Quanto sono realmente imparziali strumenti come il software elaborato in 36 ore dai quattro studenti di Princeton o la “mappa contro l’intolleranza” di cui parlò La Stampa del 15 gennaio 2014 che in realtà può trasformarsi in un pericoloso strumento di schedatura? (ne ho scritto sul mio blog, questo è il link abbreviato: http://tinyurl.com/hmztccd). Come mai su Facebook o Twitter si viene immediatamente bannati se si critica l’omosessualismo, ma le bestemmie “rispettano gli standard della comunità”? Come mai la Apple ha tolto dal proprio store la Dichiarazione di Manhattan dove le confessioni cristiane difendevano il matrimonio tra l’uomo e la donna? Sarebbero questi i poliziotti del Web o piuttosto i suoi carcerieri?

Purtroppo condivido in pieno la conclusione: ormai la verità non interessa più anche quando viene conosciuta. Ma mi chiedo se un articolo come quello di Rancilio sarebbe stato pubblicato se avesse vinto la Clinton. Consentitemi di dubitarne.

Distinti saluti,
Giovanni Romano

venerdì 11 novembre 2016

Riflessione politicamente scorrettissima su San Martino

Oggi la Chiesa ricorda San Martino, un santo caritatevole ma tutt'altro che buonista. Quando incontrò il povero, infatti, divise il suo mantello con lui facendo due parti uguali. Ma usò la spada, giusto nel caso che al povero venissero strane idee e volesse approfittare della situazione...

Come tanti finti poveri di adesso.

Giovanni Romano

giovedì 1 settembre 2016

Gli insegnanti "deportati": una cattiva divisione del lavoro

La cosiddetta "legge sulla buona scuola" ha riportato alla ribalta, e anzi aggravato, un fenomeno sul quale bisognerebbe riflettere seriamente, un male endemico del nostro paese, quella che io chiamo la cattiva divisione del lavoro tra un Nord "produttivo" e un Sud "impiegatizio".
Questo divario e` venuto fuori con particolare crudezza nel momento in cui, con l'inizio del corrente anno scolastico, in forza della legge di cui sopra centinaia di insegnanti meridionali sono stati costretti a scegliere se trasferirsi al Nord per ottenere il tanto sospirato posto di ruolo o finire definitivamente per strada dopo anni di precariato.
Non e` mia intenzione esporre qui l'ennesimo cahier des doléances di una categoria fin troppo bistrattata, i giornali e i social networks ne sono gia` pieni. Quello che mi interessa sono alcune reazioni che denotano assoluta incomprensione del problema in se` e nelle sue conseguenze a lungo termine.
Ho sentito pronunciare da una dirigente scolastica un discorso piu` o meno di questo tenore: "Ma che volete che sia, quando eravamo supplenti tutti abbiamo dovuto viaggiare, adattarci, arrangiarci... E adesso cosa pretendiamo, che il lavoro venga a casa nostra? Siamo noi che dobbiamo andarlo a cercare, non viceversa! Io stessa non esiterei a trasferirmi se fosse necessario. Non fanno cosi` gia` i docenti universitari?".
Proprio vero che il sazio non crede al digiuno! Fuor di metafora, e` preoccupante il gap che si sta creando tra una classe dirigente sempre piu` ristretta e autoreferenziale e una moltitudine di esecutori sempre piu` espropriati di ogni potere. Innanzituto, il paragone coi docenti universitari o coi presidi e` fuorviante: a parte la vistosa differenza di reddito in favore di queste due categorie, i primi non di rado alloggiano spesati. Un insegnante deve pagarsi tutto di tasca propria in localita` dove il costo della vita e` ben maggiore che al Sud, con uno stipendio fermo da tempo immemorabile. Anche nella migliore delle ipotesi, che speranze ha di mettere da parte qualcosa per il futuro?
Veniamo pero` al secondo e piu` grave aspetto del problema: la cattiva divisione del lavoro. E` una categoria interpretativa fin troppo rozza, sono il primo ad ammetterlo. Il Nord ha numerose eccellenze di alta cultura (il Salone del Libro, la Biennale a Venezia, il Politecnico di Torino solo per fare qualche esempio), cosi` come il Sud, specialmente negli ultimi anni, ha sviluppato sacche di imprenditoria dinamica e innovatrice. Tuttavia qui si discute dell'istruzione media che viene impartita dalla scuola di stato, e della media imprenditoria diffusa sul territorio. Prima ancora che recriminare sulla "deportazione" degli insegnanti (fenomeno comunque traumatico e negativo) dovremmo chiederci perche` la maggioranza assoluta degli insegnanti proviene dal Sud, e perche` al Nord sono scarsissimi gli autoctoni che decidono di intraprendere questo lavoro.
Il motivo e` crudamente economico: perche` mai il figlio o la figlia di un imprenditore quantomeno benestante dovrebbero scegliere l'insegnamento con la sua snervante trafila di precariato, subordinazione e trasferimenti se possiedono gia` un lavoro che li rendera` indipendenti e ben remunerati senza bisogno di spostarsi da casa propria? E` vero che la crisi e la dissennata politica fiscale dei nostri governi hanno in parte distrutto questo modello, ma al Nord l'idea di imtraprendere, di farcela da soli, di non mendicare un posto ma trovarsi un lavoro resta ancora valida.
Quale sfogo occupazionale puo` invece trovare la piccola borghesia meridionale, dal momento che ancora adesso, al netto delle eccezioni di cui sopra, le attivita` imprenditoriali sono monopolizzate da pochi potenti, ostacolate in ogni modo dalla burocrazia, non di rado possedute da imprese estere che nulla curano dell'occupazione o del futuro dei propri lavoratori? Per i piu` restano soltanto la carriera militare, le forze dell'ordine e il pubblico impiego, ivi compresa la scuola.
Questo ha portato a una colonizzazione incrociata in cui le due parti del paese parlano linguaggi diversi e si sopportano malvolentieri: il Sud si sente economicamente colonizzato e sfruttato dal Nord, il Nord si sente soffocato e incompreso da una burocrazia importata dal Sud.
Il problema e` particolarmente delicato nella scuola: quale istruzione va a impartire, sia pure con tutta la sua buona volonta`, chi non conosce il territorio e la sua storia, chi incolpevolmente ne ignora la mentalita`, le tradizioni, le sfumature? E` un problema strutturale, non di cultura e nemmeno di bravura. In una scuola cosi` impostata si finisce inevitabilmente per parlare un linguaggio standardizzato, astratto, lontano dalla vita reale, un discorso, piu` che un insegnamento. Ed e` questo probabilmente il risultato che lo stato cerca deliberatamente di ottenere: l'omologazione del modo di pensare, l'imposizione di un pensiero unico. Lo ottiene, ma a prezzo della sterilita` e dell'incomunicabilita`tra il popolo e l'istituzione, tra un discorso ufficiale in cui nessuno realmente crede e una vita che non trova strumenti culturali per esprimersi.
Chi scrive queste righe ha vissuto sulla propria pelle questa esperienza. Per sei indimenticabili anni ho vissuto in Maremma e l'ho dovuta lasciare, con rimpianto infinito, proprio quando avevo iniziato ad assimilare una cultura, una storia, un modo di pensare costruito da innumerevoli generazioni di cui nemmeno immaginavo l'esistenza e di fronte alle quali ero semplicemente un ospite temporaneo. Me ne sono dovuto andare proprio quando anche le buche per la strada cominciavano a diventare un problema mio.
Se questo modello di scuola continuera` (e non c'e` nessun segno che mostri un'inversione di tendenza, anzi!) ne pagheremo il prezzo non solo coi disagi dei docenti che dovranno trasferirsi - cosa di cui allo stato non importa nulla - ma ben piu` gravemente col distacco tra un "paese legale" autoreferenziale e autoritario e un "paese reale" sempre piu` apatico o peggio ancora risentito senza sbocchi.
Giovanni Romano

venerdì 19 agosto 2016

La trappola del burkini

Com'era prevedibile, il divieto al burkini imposto sulle spiagge francesi ha fatto discutere e ha avuto ampia eco in Italia. Sotto questo aspetto ho trovato stupefacente la reazione di ambienti cattolici che potrebbero essere definiti senz'altro come "conservatori": una compatta levata di scudi in difesa di questo "costume da bagno" (sic!), con una veemenza che forse non si è vista nemmeno quando si è trattato di difendere uomini e donne cristiani licenziati e discriminati solo perché portavano al collo il Crocifisso.
Da un certo punto di vista questa posizione fa onore al cattolicesimo perché conferma che difendere la libertà religiosa - in senso cristiano - significa difendere la libertà di tutti. Mi sembra però che stavolta persino intellettuali e giornalisti del calibro di Costanza Miriano, Massimo Introvigne e Giuliano Guzzo abbiano clamorosamente mancato il punto della questione.
Può essere interessante un'esposizione sia pure molto sommaria delle critiche più diffuse a questo provvedimento:
  1. È un divieto ridicolo, i problemi sono altri (crisi economica, disoccupazione, terrorismo, ecc.);
  2. Il burkini è soltanto un costume da bagno, e sulla spiaggia ognuno è libero di vestirsi come vuole;
  3. Chi l'ha detto che le donne islamiche siano "costrette" a portare il velo o il burkini? Non portano il velo anche le suore, senza che nessuno trovi niente da ridire?
  4. Prima di condannare il burkini, pensate alle nudità esibite dalle donne occidentali sulle spiagge;
  5. Se si proibisce di portare il burkini alle donne musulmane, prima o poi proibiranno tutti i simboli religiosi, soprattutto quelli cristiani.
Non vale nemmeno la pena di discutere la critica n.1. è il classico espediente che si adotta quando si vuole eludere una questione. Discuterò per ultima la critica n.2 perché ha a che vedere direttamente con il nocciolo del nostro argomento.
Critica n.3: è certamente vero che molte donne islamiche portano il velo di loro spontanea volontà, ma non si può ignorare in nessun modo la fortissima pressione sociale e culturale che lo impone di fatto a tutte le musulmane (e non soltanto a quelle che hanno liberamente scelto di portarlo, come le suore). Per non parlare della costrizione a portare il velo anche alle occidentali nei paesi islamici. Coloro che difendono con foga il burkini sembrano aver passato un colpo di spugna sui gravissimi episodi di intimidazione, percosse e persino uccisioni di donne musulmane che hanno cercato di vestirsi all'occidentale. A parte il caso di Hina, io stesso sono stato testimone diretto delle botte e dei lividi inflitti a una mia alunna marocchina dal padre solo perché la ragazza si vestiva come le altre sue compagne. Il paragone con le suore, poi, è assurdo e improponibile anche per un'altra ragione: il velo islamico (come anche i veli portati dalle donne fin dalla più remota antichità) è segno del possesso dell'uomo sulla donna. Il velo delle suore è, al contrario, il segno dell'emancipazione femminile dal possesso maschile attraverso la verginità e la libera donazione di se stesse soltanto a Dio.
Critica n.4: mi ricorda certi alunni che quando vengono rimproverati si mettono a protestare: "Professore, ma non sono solo io!". Anche questo è un modo abbastanza infantile per eludere il problema, ma il punto merita di essere discusso più a fondo. Io non sono certamente un sostenitore del nudismo, ma non si può tacere che la nostra civiltà ha un rapporto più positivo delle altre con il corpo e con la bellezza che esso esprime. è giusto parlare di mercificazione e banalizzazione del corpo, specialmente di quello femminile, ma non si può dimenticare nemmeno quanto disse Papa Giovanni Paolo II proprio nella Cappella Sistina a proposito della "teologia del corpo". Il corpo umano è dono di Dio, e prima del peccato originale era bellezza primigenia, coronamento della Creazione. Non si deve abusare ma nemmeno nascondere con una morbosa suscettibilità che forse nasconde desideri inconfessati.
Critica n.5: è forse la più infondata di tutte. I simboli religiosi di qualsiasi tipo sono già formalmente proibiti nelle scuole francesi (e solo i musulmani si fanno un punto d'onore di ignorare e sfidare questo divieto, mentre i cristiani obbediscono docilmente). In Inghilterra la situazione è anche peggiore perché la pressione anticristiana (e solo anticristiana, ci tengo a specificare) mette al bando la Croce mentre accetta senza protestare il velo islamico o il turbante dei Sikh. Il divieto al burkini non aggiunge nulla alla persecuzione strisciante di cui già soffrono i cristiani in Europa.
Arriviamo infine al nocciolo della questione con la critica n.2. Affermare che il burkini sia un semplice "costume da bagno" significa prima di tutto contraddirsi con la critica n.5, e in secondo luogo ignorare di proposito la mentalità da cui proviene. Partiamo da una considerazione del tutto laica. Nessun modo di vestire, in nessun caso, è una questione puramente privata. Con il nostro modo di vestire comunichiamo i nostri gusti, il nostro stato d'animo, il nostro status sociale, e naturalmente anche la nostra cultura di appartenenza, che ne siamo consapevoli o no. Ma nel caso dei musulmani c'è un'altra osservazione da fare: nella cultura islamica non esistono spazi neutri in nessun ambito del vivere, nessun comportamento è moralmente indifferente ma ogni manifestazione umana (e a maggior ragione il modo di vestirsi) è direttamente riconducibile a Dio. Da questo punto di vista il burkini non è semplicemente "un altro modo di vestire" ma un atto deliberato di disprezzo e di rifiuto della nostra civiltà. Non è soltanto chiudere il corpo femminile in un involucro ma anche chiudersi dentro un ghetto culturale.
Sottovalutare questo aspetto di sfida porta a sottovalutare anche l'invadenza con cui i musulmani non solo osservano le proprie usanze (e questo potrebbe essere anche accettabile) bensì le impongono agli altri ogniqualvolta si sentono abbastanza forti per farlo, o non incontrano una risoluta opposizione. Nelle mense scolastiche del Nord gli alunni non musulmani non possono più mangiare salumi: sono stati eliminati "per non offendere i musulmani" (e qui la parola offendere sottintende il rischio di violente ritorsioni). Nelle piscine tedesche si va verso orari o giorni separati per uomini e per donne perché cosi` vogliono i musulmani (altrimenti "si offendono"...). A Rimini una spiaggia è stata riservata in esclusiva alle donne musulmane e chiusa a tutti gli altri. Più di una volta, in Inghilterra, i conducenti pakistani di taxi e autobus hanno rifiutato di prendere a bordo ciechi accompagnati dai cani perché per l'Islam i cani sono animali "impuri". Le docenti cristiane delle public schools acquistate dai musulmani hanno dovuto indossare il velo o essere licenziate. E si potrebbe continuare con innumerevoli altri esempi.
Di fronte a tutto questo, possiamo davvero ridicolizzare o minimizzare la questione del burkini? Personalmente trovo del tutto giustificato il provvedimento preso dal governo francese, tanto più coraggioso alla luce delle aggressioni, delle sofferenze e dei lutti che l'Islam ha già inflitto a quella nazione e che probabilmente ancora le infliggerà. Davvero non capisco come possano sottovalutare il problema dei cattolici a tutta prova che fino al giorno prima lanciavano alte grida d'allarme sull'invasione islamica e sul tramonto della nostra civiltà.

Giovanni Romano

mercoledì 8 giugno 2016

La strage di Debre Libanos: una precisazione dolorosa ma necessaria




Il 18 maggio scorso il quotidiano La Stampa pubblicava un articolo dirompente su una delle peggiori atrocità mai compiute dalle forze armate italiane: la strage di Debre Libanos, un monastero copto fondato in Etiopia nel XIII secolo dal santo Teclè Haimanòt, principale centro religioso del paese.

In quella che è stata definita “la più grande strage di religiosi cristiani mai avvenuta in Africa”, le truppe italiane al comando del Maresciallo Rodolfo Graziani compirono una spietata rappresaglia contro il clero e i fedeli copti, accusati senza prove di avere organizzato l'attentato del 19 febbraio 1937 ad Addis Adeba  in cui Graziani era rimasto gravemente ferito e sette persone erano morte. Il generale Maletti ricevette l'ordine di circondare l'area del monastero di Debre Libanos il 18 maggio successivo, in occasione della festa di San Michele che richiamava pellegrini da tutta l'Etiopia. Ai pellegrini fu permesso di entrare ma non di uscire. Con il passare dei giorni il monastero si trasformò in una trappola mortale nel momento in cui i soldati lanciarono l'attacco sulla folla e sui monaci indifesi. Secondo testimonianze oculari il numero delle vittime fu di circa duemila, di cui almeno la metà monaci, sacerdoti e diaconi. Alcuni soldati italiani, presi dal rimorso per quanto erano stati costretti a fare, donarono ai superstiti del monastero gli ombrelli bianchi coi quali si erano riparati dal sole nei giorni precedenti.

Basterebbe questo episodio da “armadio della vergogna”, trasmesso in docufilm da TV2000 il 21 maggio scorso, a sfatare una volta per tutte il mito degli “Italiani-brava-gente”. Ancora più vergognoso è il silenzio totale che ha accompagnato queste rivelazioni che avrebbero dovuto provocare un esame di coscienza e una revisione della nostra storia. Nel modo in cui è stata data la notizia, tuttavia, c'è un particolare che stona e che dovrebbe far riflettere: l'enfasi con cui si è messo in rilievo che a compiere la strage “non furono le milizie islamiste” e che il numero dei morti fatti dagli italiani superava quello della strage compiuta dagli ottomani in quello stesso luogo nel luglio del 1531. 

Tanta premura nel difendere l'islam mi sembra alquanto fuori luogo. Bisogna infatti notare almeno tre elementi:

  • le vittime del 1937 furono massacrate dopo un attentato perché sospettate di essere terroristi e ribelli, ma non in odium fidei. Quella di Graziani fu una strage che prese le mosse da motivi abbietti di vendetta personale e di puro terrore, ma non fu diretta contro i copti in quanto cristiani;
  • alcuni – pochissimi – soldati italiani dimostrarono rimorso per quanto avevano fatto, e a nessuno passò per la mente di giustificare la loro azione con motivi religiosi;
  • infine, a costo di apparire cinici, il numero delle vittime della strage ottomana del 1531 non dovrebbe essere considerato soltanto in senso assoluto ma anche relativamente alla probabile popolazione etiope dell'epoca.


In conclusione, se nessun italiano può né deve sentirsi scusato per una strage tanto infame, a maggior ragione nessuno può sentirsi autorizzato a tracciare paralleli arbitrari e fuorvianti tra quella che fu una rappresaglia militare - per quanto aberrante- e le stragi di cristiani perpetrare a sangue freddo e senza alcun rimorso dalle armate ottomane e dai terroristi islamici.

Giovanni Romano

domenica 17 gennaio 2016

Via la Croce, ecco a voi il flipper!

Nelle sue rubriche dedicate alle "stranezze", non di rado La Settimana Enigmistica pubblica le storie bizzarre di preti (per lo piu` pastori protestanti inglesi o americani) che pur di attirare i fedeli attrezzano la chiesa coi biliardini, si esibiscono come funamboli o cantanti, raccontano barzellette su Gesu` per divertire e intrattenere la propria congregazione (1).

Leggo sempre episodi del genere con un senso di pena e di disagio (2). Quel che dovrebbe essere un Mistero, la storia piu' grande mai raccontata, la speranza piu' grande mai data agli uomini, banalizzato come un fenomeno da baraccone degno tutt'al piu` della curiosita' oziosa e divertita di una rivista di evasione... 

Quanto siano efficaci questi sistemi e` facile immaginare, non e` il caso di ripeterlo qui. L'equivoco di fondo (che nasce probabilmente a monte, da un errore assai più grave nella formazione di questi sacerdoti e/o pastori) e` duplice: da un lato credere nella propria bravura e dunque concentrare l'attenzione su di se' distogliendola da Cristo; dall'altro offrire al loro "pubblico" quello che già trova comodamente dappertutto. Perché si dovrebbe  andare in chiesa se i predicozzi inflazionati sulla bontà, la tolleranza, l'accoglienza si possono ascoltare ogni giorno da tutti i pulpiti laici? Perché il cuore dovrebbe commuoversi se il sacerdote insiste più sul riscaldamento globale che non sulla nascita o la passione di Gesù? Abbiamo cosi paura del silenzio e della preghiera che ci affidiamo alle battute di un comico à la page nell'illusione di essere "rivoluzionari" e "originali"? Che cosa e` più importante, essere originali o essere veri? Ci siamo dimenticati dell'ammonimento di Cristo sul sale della terra che perde il suo sapore (Mt 5, 13)?

Queste considerazioni trovano una puntuale e amara conferma dai numeri costantemente in calo dei partecipanti alle udienze papali e ancor più di coloro che frequentano la Messa domenicale. Della confessione poi è meglio non parlare. Non si tratta solo di apatia ma peggio ancora di distanza tra gli esseri umani, un disinteresse sostanziale al destino dell'altro e ancora più a fondo la perdita della Speranza. Chi ricorre a queste iniziative non riconosce più di essere uno strumento inadeguato e che in realtà colui che opera è un Altro. La conversione comincia innanzitutto da noi stessi, non dalle nostre iniziative più o meno "originali". Altrimenti l'interesse della gente cesserà nel momento preciso in cui cesserà la novità.

Giovanni Romano

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1. Dimenticando pero` di citare l'umorismo di Gesu` vedi ad esempio il capitolo 6 del Vangelo di San Matteo quando Gesù traccia un ritratto decisamente satirico degli ipocriti con le facce lunghe che fanno finta di digiunare o strombazzano le proprie elemosine.

2. Per strana coincidenza, appena tre giorni fa La Settimana Enigmistica (n.4373 del 14 gennaio 2016) ha pubblicato  a pag. 4 un ennesimo esempio di queste bizzarrie: un reverendo statunitense ha scommesso di pagare il tatuaggio a tutti coloro che si fossero fatti incidere sulla pelle il logo della sua parrocchia. Con questa sconsiderata iniziativa si è trovato sommerso da almeno una ventina di fatture piuttosto salate, e altri sono già in coda...