martedì 31 dicembre 2013

Schumacher, dove comincia la vera "pietas"



"Prima di chiamare felice qualcuno, aspetta l'ultimo giorno della sua vita". Così recitava un adagio degli antichi Greci, e mai come nel caso di Schumacher è sembrato tanto appropriato. Un uomo che dalla vita ha avuto praticamente tutto, un vincitore nato, un campione osannato da tutto il mondo, ricco, famoso e amico di molti potenti, in pochi istanti si è ritrovato a lottare per la vita col cranio frantumato, e anche se riuscisse a sopravvivere (cosa che gli auguriamo di cuore) non tornerà mai più a essere quello di prima e quasi certamente trascorrerà il resto dei suoi giorni con menomazioni gravissime.

I Greci forse avrebbero visto in questo incidente (che Schumacher avrebbe potuto benissimo evitare, va detto) una manifestazione dell'invidia degli dei che non permetto all'uomo di essere troppo felice, o lo puniscono per la sua hybris quando crede di bastare a se stesso.

Fin qui forse si sarebbe fermata la loro saggezza, e sarebbe diventata contemplazione rassegnata del male altrui. Ma nel caso di Schumacher sta accadendo qualcosa di diverso. Tutto il mondo gli si sta stringendo intorno, segue i bollettini medici, tantissimi stanno pregando per lui. Schumacher ci appartiene come ci appartengono i vincenti perché in loro vediamo il riscatto delle tante sconfitte, delle tante umiliazioni, delle tante mediocrità di cui è fatto il nostro anonimo quotidiano. Sarà stato anche un pilota “freddo” e “antipatico” (cosa che non ho mai personalmente avvertito) però era un combattente leale, un uomo di coraggio, un asso di prim'ordine, il cui valore si è imposto a tutti gli sportivi e anche a quelli che non s'intendevano di automobilismo. Era così famoso da essere diventato una parte della nostra vita, per questo sentiamo così acutamente lo shock della sua improvvisa disgrazia.

Ma la simpatia e la solidarietà verso Schumacher hanno anche un risvolto più profondo, intriso di pietas cristiana forse inconsapevole ma irreversibile. Ci sentiamo partecipi del suo destino in quanto esseri umani, ma la sua sorte non è solo il pretesto per un ammonimento di saggezza. Gli auguri di “vincere anche questa gara”, per quanto un po' ingenui, sono espressione sincera del desiderio che la vita umana sia fatta per un destino di felicità e non semplicemente il bersaglio di un fato invidioso.

Nell'ondata di simpatia e di solidarietà verso Schumacher si è avvertito il sussulto di un'umanità non ancora perduta, una solidarietà autenticamente umana simile a quella che è insorta contro la barbarie degli animalisti che hanno augurato la morte a Caterina Simonsen. Ma proprio qui comincia la vera pietas, di cui forse nessuno ha ancora parlato. La vera pietas sarà accogliere, curare, accudire uno Schumacher del tutto diverso dall'uomo forte e vincitore che era. Accoglierlo e volergli bene nella sua debolezza, nella sua impotenza, nella sua incapacità di rispondere ai familiari e agli amici. Accoglierlo nelle sue piccole vittorie contro il coma, se ci saranno (come ci auguriamo che ci siano), e anche se non ci saranno, per anni e anni. Guardarlo e rispettarlo come un essere umano fino all'ultimo giorno della sua vita, non come un “caso pietoso” da togliere di mezzo. Sarà questa una pietas ben diversa dalla commozione momentanea che si prova per pochi giorni, fino a quando la notizia è dimenticata. Solo così potremo dire di avere voluto veramente bene a Michael Schumacher, e di averlo aiutato a vincere la sua ultima corsa.

Giovanni Romano

sabato 22 giugno 2013

Un tributo controcorrente a Tommaso Moro

Forse “Utopia” appartiene a quella categoria di libri che vengono molto più citati che letti. Nemmeno io, lo ammetto, ne ho fatto una lettura particolarmente approfondita, e quello che sto per scrivere non ha nessuna pretesa di completezza né -purtroppo- di rigore scientifico. Voglio però soffermarmi su alcune caratteristiche di quest'opera che salterebbero senz'altro agli occhi di un lettore di media cultura come me.
Innanzitutto la radicale divisione del libro in due parti. Nella prima, un gruppo di uomini autorevoli discute delle condizioni non certo prospere dell'Inghilterra sotto il regno di Enrico VIII: povertà, vagabondaggio, malavita, gravissimi squilibri sociali (che la rottura con la Chiesa Cattolica aveva contribuito a esasperare). È una critica a fondo, una denuncia impietosa dei mali cui stava conducendo il dispotismo cinico, capriccioso e senza scrupoli del monarca Tudor. Alla discussione assiste uno Straniero che alle uscite degli altri non nasconde un'aria di ironica, divertita superiorità, come a dire: “Eh, ma se sapeste come si fa dalle mie parti...”. Dal momento che le soluzioni proposte dai vari personaggi si rivelano fallaci, inique o insufficienti, lo Straniero viene sollecitato a rompere il suo ironico riserbo e a dire da dove viene, e quale regime politico governi la sua terra, se lui afferma di esserne tanto soddisfatto e se ne vanta la perfezione su tutti gli altri.
Inizia così la seconda parte del libro con la descrizione dell'isola di Utopia, che in pratica è tutta un interminabile monologo dello Straniero. Quanto la prima parte era vivace e puntuale nella descrizione di una situazione di fatto vista dalle molteplici angolazioni dell'esperienza, tanto la seconda è pedante, monocorde, stucchevole nella sua pignoleria teorica, e soprattutto quasi angosciosa nella descrizione di un mondo assolutamente simmetrico più che armonico, un canovaccio senza smagliature dove l'errore, la varietà, l'imperfezione, e soprattutto l'imprevisto e l'amore sono aboliti alla radice. Tutti si alzano di buon mattino (non vi ricorda l'ora legale?), tutti vanno a lavorare, tutti partecipano alle feste, tutti vestono più o meno alla stessa maniera (non vi ricorda niente anche questo?), tutti nascono, vivono e muoiono secondo un copione immutabile. E soprattutto – caratteristica davvero agghiacciante – tutti sono felici. Un ingranaggio talmente perfetto che può funzionare – e funziona – per secoli e secoli senza la minima deviazione. Thomas More è disposto ad ammettere che esisterà sempre una minoranza, per quanto ridicolmente esigua, di disadattati che non vorranno saperne di essere felici, virtuosi e produttivi a comando, ma niente paura: per loro ci sono i lavori forzati. A giusto titolo Aleskandr Solzenicyn, nel suo romanzo Il primo cerchio, lo accusava di essere stato l'antesignano dei lager.
Stupisce che, a differenza della prima parte, nessuno quasi interloquisca, nessuno faccia domande allo Straniero. Il dibattito si spegne completamente, tutti ascoltano in religioso silenzio. Può darsi che Thomas More l'abbia fatto per due ragioni: per dare la maggiore completezza possibile all'esposizione delle proprie idee, e perché totalmente scettico verso i rimedi politici tradizionali. In ogni caso, con questo procedimento il libro perde molto in mordente e vivacità.
La seconda caratteristica è l'assoluta mancanza dei nomi in Utopia. Non ci viene tramandato il nome di un solo sovrano, di un solo ministro, di un solo cittadino. Nemmeno lo Straniero ha un nome. Questo è molto significativo. Da un lato può essere una polemica dell'autore contro i “grandi della storia” che lasciano un nome quando si lasciano dietro una scia di lutti, di sangue e di distruzione. Ma dall'altro rivela il limite in assoluto più grave del libro: l'automatismo dei meccanismi sociali priva le persone del loro volto, le cancella come esseri umani. Avere un nome nella storia significa essere capaci di decidere e di agire, nel bene o nel male. Significa avere introdotto una novità, significa essere capaci di far fronte all'imprevisto, significa prendersi delle responsabilità. Nulla di tutto questo troviamo in Utopia. Bertholt Brecht scriveva a gran torto: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Possiamo interpretarlo nel senso migliore se teniamo presente che per lui era il popolo che doveva diventare una specie di “eroe collettivo”, dove ciascuno, in un'emergenza, avrebbe saputo prendere il proprio posto e sacrificarsi senza bisogno di eroi vicari. Ma la storia lo ha ampiamente smentito. Anche in una società ipercollettivista c'è bisogno di qualcuno che prenda l'iniziativa, che col suo esempio scuota la massa dalla sua apatia. Anzi sono proprio le società più collettiviste quelle che coltivano in modo più esasperato il culto degli eroi, perché chiedono all'uomo comune delle prestazioni che vanno oltre le sue possibilità. Anche all'osservatore più simpatetico, penso, l'isola di Utopia appare come una galleria di manichini anonimi e perfettamente intercambiabili, nessuno dei quali ha valore o interesse di per sé.
Che questa opera sia stata scritta da un pensatore di sicura fede cattolica non può non stupire. Saranno state forse le condizioni tutt'altro che ottimali del regno di Enrico VIII, le ferite che lui aveva inferto al tessuto sociale inglese con lo scisma anglicano a suggerire a More la fuga nella sua Utopia? Non mi sentirei di escluderlo. Quel che è certo è che la Chiesa ha canonizzato Thomas More per la sua fedeltà a Roma e al matrimonio cattolico a costo della vita, non per la deprimente, monotona esposizione della perfezione di Utopia. Che tra parentesi in nessun momento dà spazio al peccato originale e alla salvezza cristiana.
Giovanni Romano

mercoledì 12 giugno 2013

Il bavaglio alla famiglia - La lettera mai pubblicata del Forum delle Associazioni Familiari

Da tempo penso che sarebbe opportuno uno studio sulle strategie di neutralizzazione della volontà popolare maggioritaria in nome dei "nuovi diritti". Tali strategie sono essenzialmente due: gli interventi della magistratura che "creano" diritti e smontano il risultato dei referendum (basta ricordare cosa accadde in California con il referendum sulla Proposition 8 che riconosceva come legittimo solo il matrimonio tra uomo e donna, approvato a larghissima maggioranza e annullato dai giudici) e la censura mediatica. Un esempio è la lettera molto chiara che il Forum delle Associazioni Familiari ha inviato al Corriere della Sera che aveva pubblicato con molto zelo gli interventi a favore delle "nozze" gay. Va da sé che il Corriere si è ben guardato dal dare voce all'opinione contraria. Pubblico qui questo intervento sperando che qualcuno lo legga e lo rilanci, da sotto i massi della censura laica.

Giovanni Romano

Per far sentire la voce delle famiglie sul tema dei diritti delle persone omosessuali a seguito degli interventi di Stefania Prestigiacomo (9 giugno), di Barbara Pollastrini (10 giugno) e di Ivan Scalfarotto (11 giugno), tutti ospitati dal Corriere della sera, il Forum inviato una lettera, a firma del presidente Francesco Belletti, al direttore De Bortoli.

La lettera, che è stata con molta cortesia respinta, diceva:

Gli interventi pubblicati dal Corriere erano tutti orientati a caldeggiare l’urgente riparazione di un ipotetico torto, subìto dalle persone omosessuali per i cosiddetti diritti civili negati. In base a tali illuminati interventi, l’Italia, in quanto cattolica, impedirebbe l’avanzare della civiltà dominante del nord Europa, che ha concesso la gioia del matrimonio alle coppie omosessuali. Quasi che il nostro Paese sia una landa incivile e arretrata perché gli omosessuali non possono sposarsi. Anche la citazione del card. Martini appare strumentalizzata, per convertire alla più moderna fede omosessualista quella “parte reazionaria del popolo cattolico” che non l’ha ancora abbracciata.
 Ma sono davvero negati, questi diritti? E quali? Il diritto ad amarsi? Il diritto a convivere? Il diritto a non avere i propri redditi assommati nel computo delle imposte? Il diritto a nessun obbligo giuridico di mantenimento verso alcuno? Sarebbe invece più serio evidenziare che oggi le coppie omosessuali hanno molti meno obblighi rispetto alle coppie sposate: possono avere due prime case senza problemi fiscali, sono trattate con inusuale riguardo da fisco, pubbliche amministrazioni, aziende, mass media, istituzioni. Anche la richiesta di estensione di strumenti come la reversibilità delle pensioni o la quota di “legittima”, in termini di eredità, sono connessi, nelle proposte in discussione oggi, come nuovi diritti, totalmente scollegati da quei doveri di reciprocità, di stabilità, di fedeltà, di assistenza e cura, che la famiglia invece esige. Il progetto di legge Galan per le “unioni omoaffettive”, per esempio, chiede tutto ciò, ma consente di sciogliere tale unione dopo soli tre mesi di separazione. Bell’impegno, per chi poi pretende reversibilità permanente della pensione!
 Stupisce che questi “paladini” dei cosiddetti diritti civili siano gli stessi che rimangono drammaticamente e costantemente silenziosi di fronte all’urgenza di dare finalmente una mano alle famiglie che ogni giorno costruiscono l’Italia, curano i propri figli, li preparano ad essere cittadini di domani, assistono i propri anziani e disabili, garantiscono la coesione sociale, subiscono sistematicamente un fisco che penalizza i carichi familiari, mentre sono abbandonate nei loro bisogni, senza nulla in cambio che una quotidiana diffamazione, perché la famiglia pare solo il luogo della violenza.
 È invece evidente a tutti che l’Italia ha retto alla crisi soprattutto grazie alle famiglie, che hanno saputo gestire di generazione in generazione i propri risparmi a beneficio dei figli e dei nipoti, sostenere i propri giovani disoccupati, accudire i propri figli disabili e genitori anziani. Altro che Italia arretrata, reazionaria, etc., Proprio sulla centralità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna si fonda questa meravigliosa rete di solidarietà che tiene insieme il Paese.
 Come opportunamente ricordava Francesco D’Agostino (Avvenire, 8 giugno) “il matrimonio non esiste per garantire la sensibilità dei coniugi, ma per consentire la costruzione di comunità familiari, alle quali la società (per mezzo dello Stato) affida i progetti intergenerazionali di convivenza”. Custodire i diritti individuali delle persone si può e si deve, con gli strumenti giuridici necessari. Attaccare la famiglia eterosessuale e genitoriale per questo è invece pessima scelta, che i movimenti di persone omosessuali per primi dovrebbero riconoscere come perdente. E anche il prezioso tema della lotta all’omofobia e a ogni discriminazione non deve essere brandito come un’arma per gli interessi di pochi, ma diventare terreno di confronto e di condivisione per il bene di tutti.

Bari - Roma, 11.6.2013

martedì 11 giugno 2013

Il leone di Philadelphia e i giochetti di Obama

L'arcivescovo Charles J. Chaput di Philadelphia dice che gli americani devono svegliarsi di fronte alle minacce contro la libertà religiosa, date le nuove rivelazioni sull'attività dell'IRS (1) che prende di mira i gruppi religiosi, nonché sulle continue vessazioni imposte dall'obbligatorietà dell'HHS (2).

“I giorni in cui gli americani potevano dare per scontata la libertà religiosa come la intendevano i padri fondatori sono finiti. C'è bisogno che ci svegliamo”, ha dichiarato l'arcivescovo Chaput nella sua rubrica del 24 maggio per il sito Catholicphilly.com.

“La pressione mirata dell'IRS sugli individui e le organizzazioni religiose ha attirato ben poca attenzione dai media. Né dovremo aspettarcene nessuna nel prossimo futuro”, ha detto.

“Ma l'ultima porcheria dell'IRS è una avvisaglia del trattamento di sfavore che i gruppi religioso dovranno affrontare in futuro, se resteranno addormentati durante il dibattito nazionale sulla libertà religiosa che si sta svolgendo ora”.

Sebbene la controversia sull'IRS si fosse all'inizio focalizzata sulle accuse all'agenzia di aver preso di mira in modo selettivo i gruppi conservatori del “Tea Party” con richieste vessatorie, sono state portate alla luce ulteriori irregolarità contro altri gruppi e individui.

Anne Henderschott, una docente universitaria e scrittrice cattolica, ha dichiarato che la verifica fiscale a suo carico dell'IRS si è concentrata sui suoi scritti che criticavano il Presidente Obama e la legislazione sanitaria del 2010 [questa legislazione ha introdotto l'assicurazione sanitaria obbligatoria a carico dei datori di lavoro che copre anche le spese per aborto, contraccezione ecc. senza fare eccezione per le organizzazioni religiose, N.d.T.]. Ha detto che la verifica l'ha scoraggiata dal criticare il Presidente.

L'IRS ha chiesto ai gruppi pro-life di presentare grandi quantità di scartoffie. L'agenzia ha chiesto ai gruppi di promettere che non avrebbero protestato contro la Planned Parenthood (3) o di dichiarare di avere intenzione di educare il pubblico su entrambi gli aspetti della questione abortista. Un impiegato dell'IRS, a quanto risulta, passò di nascosto una lista confidenziale di donatori della National Organization for Marriage alla Human Rights Campaign, sostenitrice del “matrimonio gay”, il cui presidente è stato nominato co-presidente della campagna elettorale di Obama.

L'arcivescovo Chaput ha detto che gli obblighi del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (HHS) esercitano pressioni simili sui gruppi religiosi.

Sebbene i vescovi cattolici abbiano da lungo tempo appoggiato l'accesso alla copertura assicurativa sanitaria per adeguate cure mediche, ha detto, “l'assicurazione sanitaria si è trasformata in una battaglia di libertà religiosa provocata per intero – e senza alcun motivo – dall'attuale amministrazione della Casa Bianca”.

Ha detto che l'amministrazione Obama, nonostante “alcune piccole concessioni”, si rifiuta di fare marcia indietro o di “modificare ragionevolmente” l'obbligo che richiede la copertura assicurativa per le sterilizzazioni, i contraccettivi e le droghe abortive. L'arcivescovo Chaput dice che questo obbligo “viola le convinzioni morali e religiose di molti individui, dei datori di lavoro privati e di organizzazioni affiliate e ispirate religiosamente”.

Ha detto che l'obbligo “può essere inteso soltanto come una forma di coercizione”.

“L'accesso alla contraccezione gratuita non è un problema in nessuna parte degli Stati Uniti”, ha detto l'arcivescovo. L'obbligo è dunque una dichiarazione ideologica di principio, l'imposizione di una opzione preferenziale per l'infertilità. E se milioni di americani dissentono da questi princìpi – peggio per loro”.

Ha dichiarato che queste controversie mostrano che il dibattito sulle questioni di morale sessuale ha bisogno di “una parallela e vigorosa difesa della libertà religiosa”.

La conferenza episcopale degli Stati Uniti terrà un'altra Quindicina [di giorni] per la Libertà dal 21 giugno al 4 luglio. Come l'anno scorso, comprenderà manifestazioni pubbliche, veglie di preghiera e messe per la difesa della libertà religiosa.

(c) Catholic News Agency, 2013
Unauthorized translation by
Giovanni Romano

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1. Internal Revenue Service: l'agenzia delle entrate USA.
2. US Department of Health and Human Services: corrisponde al nostro Ministero della Salute.
3. La più potente organizzazione abortista e contraccettiva degli USA.

sabato 4 maggio 2013

Biagio Marin e Prezzolini: il fraintendimento della fede.

In questo periodo la mia presenza sul blog è fatta sempre più scarsa, sia per la  mia connaturata pigrizia sia per motivi di studio. Ho ritrovato tra i miei documenti una lettera (non pubblicata) che inviai ad Avvenire il 2 settembre del 2011 (!) su uno scambio di lettere tra Biagio Marin e Prezzolini. Il tema però mi sembra non avere perso nulla della sua attualità, per questo lo ripropongo qui.

Caro Direttore,

lo so, ci sono ben altri argomenti di cui trattare, e riprendere dopo quasi due mesi l'articolo “Prezzolini e Marin, lettere dell'amicizia” (15 luglio scorso) può sembrare un'oziosa perdita di tempo. Ma gli argomenti – l'interpretazione del Concilio, la fede, la modernità e la Chiesa cattolica – sono di quelli che non passano, e dà tristezza vedere con quanta superficialità non scevra di superbia Biagio Marin abbia “liquidato” la Chiesa e la cultura che nasce dalla fede, con accuse che Marco Roncalli ha definito giustamente “assurde”. Non si tratta però di una semplice questione di temperamento. Le radici del suo pensiero e gli esiti cui ha condotto si sono dimostrati disastrosi per il cristianesimo e per l'uomo come tale.

Ho conosciuto per mia sfortuna uno di quei preti “più liberali dei laici” auspicati da Marin. Tutti lo stimavano e ammiravano il suo “anticonformismo” che in pratica consisteva nello scagliarsi spesso contro le gerarchie ecclesiastiche e il Magistero, senza mai criticare gli esiti più aberranti e disumani del laicismo secolarista. La gente concentrava la sua ammirazione su di lui, ma il sacerdote non faceva quasi nulla per richiamarli a Cristo. Uomo di singolare aridità spirituale (la sua cristologia era praticamente inesistente,e su questo ritornerò), della sua parrocchia aveva fatto un deserto, e i pochi rimasti si sentivano autorizzati a disprezzare i fedeli di tutte le altre parrocchie perché loro soli si sentivano “veri” cristiani, loro soli avevano il “coraggio” di contestare la gerarchia, loro soli erano gli “adulti” che “avevano capito che cosa fosse “il vero cristianesimo” che non aveva bisogno di statue, processioni, rosari e forse anche preghiere tout court (a me fu sconsigliato di dire l'Angelus tre volte al giorno, del rosario si rideva apertamente). Si insisteva molto sulla Bibbia, ma solo per trovare conferme a quello che già si pensava. Senza accorgercene stavamo diventando una congregazione protestante. Si era dimenticata la disarmante riflessione di C.S. Lewis nelle “Lettere di Berlicche”: “Non far mai venire in mente al tuo paziente che se Dio ha avuto misericordia di lui, ne ha avuta altrettanta per il droghiere un po' viscido che gli siede accanto nel banco”. Fortunatamente alcuni incontri con quelli che Marin avrebbe bollato come dei cattolici “libidinosi di potenza” mi fecero riscoprire la bellezza del cattolicesimo e la ragionevolezza della fede cristiana. La mia vita prese una strada meno segnata dal lamento e dalle recriminazioni.

È fin troppo facile liquidare la teologia come “un farnetico da pazzi” dimenticando che essa esprime potentemente la tensione dell'uomo verso l'infinito. Solo Goethe si poté permettere di lasciar cadere la teologia per far intraprendere a Faust la sua grandiosa avventura, ma alla teologia dovette ritornare con la preghiera finale del Doctor Marianus. La strada più comoda, quella che prese Marin - e più di recente Ermanno Olmi con “Centochiodi” - fu invece quella di sbarazzarsi delle domande per non sentirsene interpellati.

Particolarmente allarmante e al tempo stesso rivelatrice è la rivolta contro la cristologia, cioè contro l'umanità di un Dio che ha accettato - e redento – la carne in tutta la sua concretezza, in tutta la sua fatica, in tutto il peso del suo limite. È più comodo un Dio ridotto a Parola, il dio del Libro al quale si può far dire tutto quel che ci piace sentirci dire. È facile leggere Meister Eckhart – il sermone “Sulla povertà” l'ho letto anch'io –, inebriarsi con gli straordinari voli della sua altissima intelligenza speculativa, e alla fine sentirsi autorizzati a essere “liberi da Dio”. Un cristianesimo “dalle nuvole in su” che fa molto comodo a chi detiene il potere su questa terra.

L'accusa non solo più assurda ma anche più ingiusta che Marin poteva muovere alla Chiesa è di concedere valore a una persona quasi a proprio arbitrio. La Chiesa non attribuisce, ma riconosce il valore infinito di ogni persona, e per essa – come per il suo Signore – davvero “Nessuno (…) è abbastanza idiota, che essa non lo possa consacrare 'sacerdos'”. Marin lo scrive con sarcasmo, ma se la Chiesa discriminasse come lui e si rivolgesse solo agli “intelligenti” o agli immancabili “onesti” non avrebbe mai ordinato un santo come il Curato d'Ars, e Cristo si sarebbe scelto altri discepoli.

C'è soltanto da rabbrividire nel constatare quanto si sia fatta strada la mentalità di cui Marin era antesignano forse inconsapevole, e a quali esiti stia conducendo. È il mondo, non la Chiesa, ad essersi arrogato “empiamente” il diritto di stabilire chi è abbastanza intelligente, bello, prestante per nascere o per essere tenuto in vita. A questa deriva non può essere argine sufficiente un generico “senso religioso” o un'ammirazione intellettuale per i Vangeli. Può esserlo solo la concretezza di un Fatto che vive nei Sacramenti (e qui l'accusa di “sacramentalismo magico” sfiora la blasfemia). Se è sbagliato idolatrare l'istituzione e dimenticare lo Spirito, altrettanto grave è denigrare sistematicamente la forma storica e dunque reale che Cristo stesso ha stabilito per la trasmissione del suo messaggio. Anche perché spesso e volentieri si scambia per voce dello Spirito quello che passa per la testa a noi...

Un'ultima osservazione a proposito di Prezzolini. Alcuni dei suoi giudizi sulla “protestantizzazione della Chiesa” sono particolarmente acuti, e seppe vedere la deriva dove Marin e tanti altri vedevano solo progresso. Ma anche lui partiva da presupposti laici di pura efficacia storica che non gli facevano cogliere in pieno la portata del fatto cristiano. Non si può essere semplicemente “cattolici alla vecchia maniera”. Qualsiasi aggettivo, qualsiasi specificazione accanto alla parola “cattolico” è altamente pericolosa perché ne mutila l'universalità e l'asservisce a un'idea di parte. La riscoperta del sacro, in sé indispensabile, passa dallo stupore di un incontro inaspettato, da una vita che cambia imprevedibilmente, da una circostanza in cui si vede all'opera una forza che non è nostra. Le forme sono destinate a isterilirsi in due casi: o quando si perde di vista l'essenziale o quando si resta abbarbicati alla lettera dimenticando la fantasia creatrice di Dio. Peccato che questo sia sfuggito a due uomini di valore come Marin e Prezzolini.

Cordiali saluti,

Giovanni Romano

sabato 30 marzo 2013

Il martirio silenzioso di Benedetto XVI

Ho trovato su Twitter una bellissima riflessione di Elizabeth Scalia sul martirio silenzioso di Benedetto XVI dopo il suo ritiro. Lo traduco qui allegando il testo originale:

Molta gente potrà restare sorpresa nell'apprendere che nel 2007 Papa Benedetto XVI visitò i detenuti dello stesso carcere [minorile] che Papa Francesco ha visitato il Giovedì Santo, e celebrò la Messa coi ragazzi, sebbene non il Giovedì Santo.

Menziono questo a causa delle osservazioni sconcertanti che sto vedendo da parte di persone cui piacerebbe far finta che fino ad ora la Chiesa e i suoi Papi siano stati noncuranti verso i poveri e gli ultimi. Sentimenti come questi possono provenire solo da ignoranza o da deliberata malafede.

Parlando di umiltà papale, mentre io sono certamente ammirata e stimolata dagli esempi di Papa Francesco, vale la pena di far notare che Benedetto sembra aver accettato che si parli male di lui, che venga incompreso e persino messo da parte per amore di Cristo e della sua chiesa, e per amore delle opere dello Spirito Santo. Anche questo è un genere di umiltà assolutamente ammirabile, punto per punto altrettanto pieno di abnegazione e di imitazione di Cristo quanto la volontà di vivere con semplicità e di lavare i piedi agli altri. Vale la pena di riflettere a tutti questi esempi di umiltà papale durante questo Triduo, siete d'accordo anche voi?

Unauthorized translation by
Giovanni Romano

Many people may be surprised to learn that in 2007, Pope Benedict XVI visited the inmates at the same detention center Pope Francis visited today, and shared Mass with the kids, although it was not on a Holy Thursday. 

I mention this because of the weird remarks I am seeing from people who would like to pretend that until now the church and its popes have been negligent of the poor and the marginalized. These are sentiments that can only come from a place of ignorance or willful malice.

Speaking of papal humility, while I am certainly admiring of and challenged by the examples of Pope Francis, it's worth mentioning that Benedict seems content to be maligned, misunderstood or even cast aside for the sake of Christ and his church, and the workings of the Holy Spirit. That's a pretty admirable sort of humility, too, every bit as self-abnegating and Christlike as the willingness to live simply and wash the feet of others. Worth pondering all of our examples of papal humility, this Triduum, don't you think?

sabato 9 marzo 2013

Piccola censura (de sinistra) cresce...

Giovedì scorso, 7 marzo, le riviste TV (in particolare TV Mia) segnalavano nella programmazione di prima serata su RAI1, dopo Affari tuoi, una replica dello sceneggiato Lo scandalo della Banca Romana. È stato invece trasmessa la commedia romantica New in town - Una single in carriera con Renée Zellweger.

Nessuno mi toglie dalla testa il sospetto che si siano volute evitare delle spiacevoli analogie con lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena, perché gli spettatori non tirassero imbarazzanti conclusioni. Ma il MPS non appartiene alla parte politica che ha sempre strepitato per la "libertà d'informazione" e "il pensiero critico"?. Per non parlare delle ben più minacciose censure e blindature dell'informazione che promette Grillo. Stiamo freschi...

Giovanni Romano

domenica 24 febbraio 2013

Sommessa risposta a Corrado Guzzanti

Tempo  fa, ho trovato su Facebook questo intervento di Corrado Guzzanti che riporto di seguito. Mi sembra lo spunto per discutere di cosa sia oggi l'offesa al senso religioso, e di come rispondere a certe provocazioni.

In merito all'offesa confesso di non capire esattamente cosa sia il "sentimento religioso" perché sfortunatamente non ne sono dotato. Ho sempre pensato che essere intimamente credenti non possa essere troppo diverso dall'essere intimamente liberali, o socialisti, o vegani. Si tratta di amare e riconoscersi in delle idee, in una visione della società e del mondo, e le idee non sono sacre e intoccabili solo perché noi crediamo così fortemente in esse; vivono nel dibattito pubblico, confrontandosi e dovendo convivere con idee diverse e a volte opposte. Spero di non offendere nessuno se affermo che l'esistenza di un creatore, l'inferno, il paradiso, l'immortalità dell'anima, il giorno del giudizio ecc. siano, fino a spettacolare prova contraria, soltanto delle idee, delle opinioni che si è liberissimi di sostenere purché non si tenti di imporle agli altri come un tabù inviolabile. Che il sentimento religioso non possa reclamare una superiore legittimità, perché supportato, mi dicono, da pervasiva e speciale intuizione, appare evidente dal fatto che le credenze religiose sono tante, più di quelle da cucina dell'Ikea, e producono purtroppo affermazioni contrastanti. Un buddista e un cattolico, egualmente persuasi della loro fede, saranno certi di saperla molto lunga sull'origine e il senso dell'uomo e dell'universo, ma almeno uno di loro, al momento del trapasso, avrà una sorpresa. Ciò dovrebbe suggerire che convinzione "sentimentale" profonda e verità siano sostanzialmente due cose diverse.
(Corrado Guzzanti)

L'ateo è colui che non crede a nulla
e pretende che gli altri credano a lui”

Non riconosco a Corrado Guzzanti alcun coraggio morale, ma una notevole dote di furbizia sì. Con il brano che ho citato mette sapientemente le mani avanti per proteggersi dall'accusa di “offesa al sentimento religioso” (e specialmente al sentimento religioso cristiano, anche se non lo afferma esplicitamente. Offendere altri sentimenti religiosi come ad esempio quello islamico può costare molto, molto di più). E non fa queste dichiarazioni soltanto per sé: la sua è una vera e propria teorizzazione del disprezzo antireligioso che prima o poi dovrebbe diventare – anzi sta già diventando – dottrina politica fino a istituzionalizzarsi in norma giuridica, in modo da mettere al riparo chiunque, à la Odifreddi, affermi che il cristiano è un imbecille tout court.

Andiamo però a vedere cosa c'è dietro le sue affermazioni, esaminandole una per una.

In merito all'offesa confesso di non capire esattamente cosa sia il "sentimento religioso" perché sfortunatamente non ne sono dotato.

Prima di tutto si parte da un equivoco, certo deliberato: che la religione sia soltanto sentimento, o peggio ancora sentimentalismo. Lui afferma di esserne “sfortunatamente” privo, ma non si evince che ne senta la mancanza, anzi piuttosto il contrario. Un po' come essere privi di orecchio musicale o di sensibilità per la poesia: un piccolo difetto forse, ma si vive benissimo lo stesso.

Ho sempre pensato che essere intimamente credenti non possa essere troppo diverso dall'essere intimamente liberali, o socialisti, o vegani. Si tratta di amare e riconoscersi in delle idee, in una visione della società e del mondo, e le idee non sono sacre e intoccabili solo perché noi crediamo così fortemente in esse(...) Ciò dovrebbe suggerire che convinzione "sentimentale" profonda e verità siano sostanzialmente due cose diverse.

Il sentimento religioso, come lui lo intende, è qualcosa che ci si forma da sé a forza di autosuggestione, così che tanto più è fermamente creduto tanto maggiore è la prova della sua falsità. Un bel sofisma, ma non è niente altro che il vecchio giochetto laicista del “testa vinco io, croce perdi tu”: se non si crede abbastanza si è ipocriti, e se si convinti si è fanatici. In ogni caso quel che interessa al laico è affermare spocchiosamente la propria “superiorità”.

Ma il “sentimento” religioso è tutto qui, una convinzione totalmente irrazionale e arbitraria? E se per assurdo lo fosse, bisognerebbe almeno chiedersi da cosa nasce e perché. Nemmeno le peggiori crisi di follia nascono totalmente nel vuoto, alla base c'è pur sempre un motivo reale, e ad essere aberrante è la risposta, non la domanda. Qui è in gioco la spinta irresistibile, costitutiva dell'uomo a chiedersi perché, a porsi domande, a interrogarsi sul significato di ogni cosa. Anziché banalizzare la questione a “sentimento religioso” come fa Guzzanti, sarebbe più corretto parlare di senso religioso come fa Don Giussani: il bisogno che ha ciascuno di trovare un significato, anche inconscio, per cui valga la pena vivere i cinque minuti successivi della propria vita. In questo senso, come Giussani nota acutamente, l'ateismo in senso etimologico è impossibile.

Che il sentimento religioso non possa reclamare una superiore legittimità, perché supportato, mi dicono, da pervasiva e speciale intuizione, appare evidente dal fatto che le credenze religiose sono tante, più di quelle da cucina dell'Ikea, e producono purtroppo affermazioni contrastanti.

Qui siamo ancora sul terreno di Guzzanti che usa un argomento tipico dell'illuminismo: la varietà delle credenze religiose, molte delle quali si contraddicono a vicenda, non è forse una prova ulteriore della loro falsità, o quanto meno della loro soggettività? Osservo di passaggio che paragonare il numero delle credenze religiose a quelle dell'IKEA non è tolleranza, è disprezzo, più o meno come quello di Anatole France quando scrisse che “chiunque è libero di inginocchiarsi davanti a una cipolla alle quattro del mattino e chiamarla il suo dio”. Come se il senso religioso non avesse nulla a che vedere con la ragione in quanto tale! In questo modo si liquida sbrigativamente tutto il patrimonio di riflessione filosofica, di poesia, di arte, di preghiera che esso ha generato ovunque, anche se sarebbe probabilmente troppo pretendere da Guzzanti un approfondimento culturale in questo senso.

Ci sono due risposte al suo argomento. La prima è: quale religione, o meglio quale atteggiamento di fronte all'esistenza corrisponde di più ai bisogni fondamentali dell'uomo? Una religione che dà per scontato che alcuni esseri umani, bambini compresi, debbano essere sacrificati per placare l'ira degli dei, oppure una religione che li mette addirittura al primo posto? (“Se non ritornerete come bambini...”). Una religione che predica l'odio e la sottomissione contro gli “infedeli” kafir oppure una religione che ingiunge di amare anche il nemico (Guzzanti compreso)? Un modo di pensare laicista che considera “altruista” e “pietoso” dare la morte ai malati oppure una religione che non li abbandona e cerca di alleviare le loro sofferenze?

La seconda risposta è che il cristianesimo, prima ancora di essere una teoria, è un avvenimento storicamente verificabile. Non sto qui a riassumere le testimonianze degli storici, numerose e inconfutabili (i primi vangeli risalgono ad appena trent'anni dopo la crocifissione, mentre per la vita di Alessandro Magno scritta da Plutarco bisognò attendere oltre 400 anni). Basta anche chiedere a qualunque docente di antropologia culturale o di storia delle religioni quanto sia fondamentalmente inspiegabile la nascita e soprattutto la diffusione del cristianesimo nel mondo antico. Ida Magli scrisse che qualunque personaggio storico si può comprendere con le categorie del proprio tempo, tranne Cristo. Il suo messaggio è assolutamente nuovo e diverso rispetto a tutte le idee correnti nel mondo giudaico e pagano, è imparagonabile con qualsiasi altra dottrina insegnata prima, eppure si diffuse con una rapidità stupefacente, e non soltanto tra gli schiavi. E qui si trova implicitamente la risposta a un'altra osservazione di Guzzanti:

le idee non sono sacre e intoccabili solo perché noi crediamo così fortemente in esse; vivono nel dibattito pubblico, confrontandosi e dovendo convivere con idee diverse e a volte opposte.

Appunto. Il cristianesimo visse e si confrontò nel dibattito pubblico, un dibattito pubblico che cercò di emarginarlo o con lo scherno indifferente (come capitò a San Paolo nell'Aeropago) oppure con la violenza delle persecuzioni. Tuttavia, senza appoggiarsi ad alcun potere, almeno nei primi secoli, il cristianesimo conquistò i cuori, le menti, le intelligenze di popolazioni sempre più vaste, fu trovato più umano e persuasivo, più vero della selva di religioni che popolavano il mondo pagano. Mi viene il sospetto che quando Guzzanti invoca rumore di fondo del dibattito pubblico lo faccia in realtà per non ascoltare, per non sentirsi interrogato da quel che non vuole sentire, per non essere costretto a porsi la domanda: “E se avessero ragione?” e dunque per non cambiare vita di conseguenza, in quanto nel cristianesimo dottrina e vita sono tutt'uno. È questo, in fondo, quel che dà fastidio a chi non crede: dover prendere posizione, non poter scegliere a proprio comodo e secondo la propria personale convenienza, doversi confrontare – questo sì, e non teoricamente – con il Realmente-Altro.

Spero di non offendere nessuno se affermo che l'esistenza di un creatore, l'inferno, il paradiso, l'immortalità dell'anima, il giorno del giudizio ecc. siano, fino a spettacolare prova contraria, soltanto delle idee, delle opinioni che si è liberissimi di sostenere purché non si tenti di imporle agli altri come un tabù inviolabile. (…) Un buddista e un cattolico, egualmente persuasi della loro fede, saranno certi di saperla molto lunga sull'origine e il senso dell'uomo e dell'universo, ma almeno uno di loro, al momento del trapasso, avrà una sorpresa.

Se Guzzanti avesse letto il Card. Biffi si sarebbe probabilmente risparmiato questa osservazione, perché è stato proprio questi a scrivere: “Il credente è uno che si aspetta molte sorprese”. Bisogna vedere però quali sorprese. Se ha ragione il buddista, nella migliore delle ipotesi ci aspetta il Nirvana, cioè un indeterminato Nulla o un Tutto ugualmente indeterminato: in entrambi i casi, però, l'io non c'entra più nulla con l'essere. Se ha ragione il cattolico, troverà un mondo notevolmente più vario, animato e gioioso (se va in paradiso) oppure molto, ma molto doloroso (se va all'inferno). In ogni caso un mondo nel quale la sua individualità non scomparirà, ma conoscerà la verità.

E se fossi in Guzzanti starei attento a chiedere “spettacolari prove contrarie”. Primo perché mi ricorda sgradevolmente quel che i farisei dissero a Cristo sulla croce (“Avanti, scendi che ti crediamo!”, e l'avevano visto risuscitare Lazzaro!). Secondo, perché Cristo stesso rifiutò di dare spettacolo dei propri poteri (“Se sei figlio di Dio, buttati giù che verranno gli angeli a sorreggerti”). Terzo, infine, perché se proprio si insiste Dio potrebbe mandarci una “spettacolare prova contraria” come quella che capitò a Sodoma e Gomorra...

Giovanni Romano

martedì 5 febbraio 2013

Scusi, mi fa vedere l'apertura mentale?

Molto tempo fa, addirittura il 4 dicembre del 2006, rilanciai un appello contro il gioco Rule of Rose perché particolarmente sadico e violento. Lo feci con tanta più convinzione perché avevo letto le recensioni sulla stampa specializzata (la rivista Computer Idea, non certo di area cattolica).

Il post giacque dimenticato per altri anni, fino a quando si vece viva una blogger, una certa "Queer" (un soprannome non certo scelto a caso) che mi mandò questo commento (potete trovarlo anche sul post originale):

Credo che la vostra sia solo ignoranza, ben miscelata ad una dose sovrumana di pregiudizi.
Io ho giocato a questo gioco e sono fiera di dirvi che si tratta di una sottilissima analisi psicologica di temi assolutamente delicati e veritieri. Non c'è niente di più perverso rispetto a ciò che accade realmente ovunque, nella realtà di tutti i giorni. A questo punto, i vostri cari pargoletti potete ibernarli e scongelarli tra qualche secolo, se ritenere un gioco simile la quint'essenza dell'orrore e della violenza. 
Aprite gli occhi. E la mente.
Sul serio.
Al che io risposi:

Ti faccio una domanda senza ironia: e ti prego di rispondermi seriamente: qual è la "sottilissima analisi psicologica di temi assolutamente delicati e veritieri" che hai trovato in questo gioco? Ti ringrazio in anticipo.

A parte gli insulti gratuiti e l'arroganza, sono almeno sei mesi che attendo una risposta. Che non è mai arrivata.

Giovanni Romano